Aliberti è una delle case editrici medio-piccole che sta crescendo meglio dal punto di vista della qualità e completezza delle proposte. Il bel thriller “L’Illusionista” di Edoardo Montolli si inserisce pienamente in questo trend.
Per capirne la complessità, la cosa migliore è far parlare l’autore: “Come si poteva dunque non credere che il caso dominasse il mondo?
Il caso dominava. Ma bisognava interpretarlo bene. Perché il caso era infido, si nascondeva nelle pieghe delle frasi e tra le lettere delle parole, abbagliava con le coincidenze e avvelenava gli uomini, creava equivoci e gelosie, paura e terrore, angoscia e rabbia. Bisognava sfuggirgli. Oppure governarlo bene“.
Ecco l’elemento centrale di un romanzo in cui, però, nulla accade per caso.
Ciò che sembra svolgersi senza un preciso disegno, in realtà ce l’ha. Chi ne subisce le conseguenze, ahi lui, non riesce a vederlo. Si tratta di una leggenda della malavita: il labirinto, meccanismo in cui, come nemesi di un torto subito, non si ammazza il responsabile, ma gli si distrugge la vita.
Si intesse una ragnatela di circostanze ingannevoli che lo portino a rimanere solo, abbandonato dagli affetti, sospettato (anzi, condannato) per qualcosa di grave che non immagina nemmeno di poter aver commesso. Dentro il labirinto, Montolli muove un universo di personaggi sfaccettati, che non sono mai una cosa sola.
Ciascuno ha il proprio lato oscuro, più o meno prevalente. Impossibile ricordarli tutti, ma vale la pena di spendere due parole per l’eroe assolutamente antieroico, Johnny Santini, professore di liceo classico dipendente da hashish (ma solo quello dell’amico Berto, con un THC simile all’LSD) che intesse ambigue relazioni con le proprie studentesse e cerca di affrancarsi da un passato di affetti infranti e
crimini “minori” sfogandosi in azioni dimostrative a sfondo animalista. O il commissario Boe, innamorato di due cose incompatibili, la divisa da poliziotto, a cui è attaccato da un personale senso più di giustizialismo che di giustizia, e il Brasile, in cui sogna di rifugiarsi al più presto, immaginando di vivere in agiatezze. La trama si svolge in prima persona quando interviene Santini e in terza quando si muovono gli altri personaggi.
Non solo Boe e la sua squadra che vede il novellino pedante e il corrotto, coinvolto in combattimenti tra cani, ma anche altre maschere molto ben cesellate. Cesarino, malvivente che fu il padre putativo di Johnny è rimarchevole. Buono o cattivo? Grizzly o Yoghi, per usare le parole dello stesso Boe? Sino all’ultima pagina resterà il dubbio. Poi lei, la misteriosa suora vestita da festa che si taglia la gola il 13 aprile, data che ha tatuata sul braccio. Eccolo, l’ingresso del labirinto. Un labirinto che ha i contorni e i confini di una Milano da anni di piombo, tornata nera senza nemmeno saperlo. “Le strade erano vuote, i bar chiusi. Nemmeno più la compagnia dei baracchini dei panini e delle prostitute che per anni avevano colorato i dintorni di corso Sempione di sesso sudamericano e albanese. Di sesso e sangue. Via loro, non era rimasto più nulla oltre le tre. Se morivi per strada, di notte a Milano, se ne accorgevano solo quelli della nettezza urbana”. E l’uscita dal labirinto? Al lettore il piacere di individuarla.
Attenzione, però, occorre tempo e metodo, Montolli cercherà in ogni modo di farvi smarrire la strada, con l’abilità del giornalista investigativo spesso “borderline”. Guardatevi alle spalle, perché in questo romanzo davvero nulla è come sembra.
Recensione di Vanloon12
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